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CHI SIAMO-COSA VOGLIAMO

Siamo il “GRUPPO 16 GIUGNO 1944”, Associazione il cui nucleo prese vita alla fine del 1945 dai lavoratori genovesi ex deportati nei territori del terzo Reich.

La nostra colpa, aver promosso e partecipato agli scioperi che, dal marzo del ’43 si ripeterono “su vasta scala” nelle nostre come nelle altre fabbriche d’Italia e si intensificarono dopo l’8 settembre, contro gli invasori tedeschi e i repubblichini del ricostituito partito fascista, la Repubblica Sociale Italiana ( RSI ).

All’Associazione sono iscritti quasi tutti i nostri familiari, anche quelli dei compagni scomparsi. I figli in particolare sono diventati i portavoce e talora i promotori delle nostre iniziative.

Come da statuto, può iscriversi all’Associazione chiunque voglia “tener vivo il ricordo della tragica deportazione…” “concorrere all’affermazione dei sentimenti di fraterna convivenza tra i popoli...”affinché la PACE nella libertà, sia sempre la vera incontestata Sovrana.”

Solo una piccola parte di noi ha rilasciato memoria orale delle sue esperienze di deportato all’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea[1] di Genova. Tre dei nostri compagni hanno scritto un diario. Quello di Orlando Bianconi,[2] è stato pubblicato postumo a cura del figlio Severino nel 2009, quello di Francesco Rovida, anch’esso postumo, è in via di pubblicazione.[3] a cura del nipote Giovanni Battista Boccardo. Mario Magonio, soprannominato il Burattinaio di Mauthausen, morto nel 2009, ha invece pubblicato il suo diario su sito web nel 2002.

La maggior parte di noi ha lasciato o lascerà solo un patrimonio di racconti familiari, ma anche quando gli ultimi, i più giovani, i 16enni di allora non ci saranno più, vorremmo che non fossero solo i nostri figli e i nipoti a coltivare i ricordi e a tramandare la Memoria della Deportazione Genovese, ma che questa continuasse a vivere per il valore intrinseco di coesione e coraggio civile dimostrati dalla classe lavoratrice nella lotta contro la dittatura nazifascista.

E’la stessa classe lavoratrice che il 30 giugno del 1960 insorse contro la protervia dell’ex prefetto Basile, il fiancheggiatore della nostra deportazione, di voler tenere a Genova il congresso del ricostituito partito fascista del dopoguerra, il Movimento Sociale Italiano) ( MSI ), e che è pronta a mobilitarsi oggi e sempre, all’occorrenza, contro ogni tentativo di sopraffazione.

Noi ex deportati del 16 Giugno1944, non abbiamo gesta eroiche da raccontare, abbiamo solo scioperato contro la guerra e la dittatura, adulti e giovani con la prima barba, accomunati nella protesta e poi, come accadrà alla maggior parte di noi durante la deportazione, accomunati nella fame, nel freddo, nel lavoro gravoso, talvolta dalle botte ricevute senza pietà, mentre eravamo infestati dai pidocchi, storditi dal dolore fisico e da quello dell’animo altrettanto maltrattato ed offeso.

16 GIUGNO 1944: I FATTI - GLI ANTEFATTI

Ogni città grande o piccola d’Italia ha vissuto le sue sofferenze durante gli anni del regime fascista, della guerra e dell’occupazione nazista. Ogni città e paese ha avuto i suoi martiri: i civili massacrati per rappresaglia, i Resistenti Partigiani e, qualche città, ha avuto anche, tra le vittime, i cittadini lavoratori delle fabbriche, i protagonisti della Resistenza operaia le cui armi furono il sabotaggio ma soprattutto lo sciopero dai posti di lavoro- proibito dal 1926 con le leggi dette fascistissime-, atto di protesta contro i bassi salari, lo sfruttamento, le razioni da fame e ben presto atto politico contro le dittature, la guerra, per conquistare la pace, la libertà, per la salvaguardia delle fabbriche e del lavoro per il futuro.

Genova è una di queste città, non l’unica certo ma quella in cui l’entità della reazione e la rappresaglia nazifascista non ha avuto eguali nell’Europa occupata.

IL FATIDICO VENERDI’

Gli stabilimenti della periferia di ponente, tra Sestri e Cornigliano, allora i più importanti S.Giorgio, Piaggio, Cantieri Navali, Siac, il 16 giugno 1944, un venerdì, nelle prime ore del pomeriggio, furono accerchiati dai nazisti occupanti e dai fascisti di Salò e 1288 lavoratori sotto la minaccia delle armi, furono deportati in Austria, Germania e nei paesi europei occupati dai nazisti. Solo qualche giorno prima, il 10 giugno, erano stati deportati 34 operai dell’Ansaldo.


Dopo un viaggio estenuante, che attraverso i racconti immerge in un incubo identificativo, i treni, in cui era stata pigiata la merce umana, raggiunsero il campo di Mauthausen, la prima tappa.

Oltre la paura sulla propria sorte, non mancò nulla per rendere tragica l’atmosfera: la pioggia fredda per i genovesi in canottiera o camiciola, le urla ossessive ”Schnell, Schnell” e i colpi con il calcio dei fucili delle SS quando gli zoccoli e i sandali estivi, incastrati nel fango della strada, rallentavano il ritmo della corsa, non mancarono neppure gli sputi della folla sui “traditori” dell’asse.

Correvano per raggiungere Mauthausen, i 16enni della scuola apprendisti, i 18enni appena promossi operai e gli operai finiti, mano d’opera preziosa, ed i dirigenti cui toccherà provare il lavoro manuale.

PERCHE’ QUESTA RAZZIA

Già prima della guerra, la propaganda tedesca - in prospettiva di un’ aumentata necessità di produzione industriale- invitava gli italiani, preferibilmente specializzati e del Sud Tirolo a lavorare in Germania. Le adesioni, almeno quelle spontanee, furono molto al di sotto delle aspettative nonostante le condizioni di lavoro offerte. Dopo l’8 settembre, mentre i tedeschi continuano a combattere gli anglo-americani, l’Italia fatica anche a reclutare soldati per la RSI. Alla seconda chiamata di leva, infatti, si presentano in scarso numero, quelli soprattutto, convinti o meno, che temono ritorsioni per la propria famiglia, gli altri si nascondono e prendono la via della montagna.

 La Germania ha assoluto bisogno di mano d’opera specializzata per mantenere attiva ed efficiente la macchina bellica del Reich. La necessità di mano d’opera non è però l’unica spiegazione ad una rappresaglia di tale entità. Esiste un’altra motivazione che impegna all’arrivo a Mauthausen, anche i responsabili della gestione del campo: i quasi 1300 lavoratori genovesi devono o no essere considerati prigionieri politici? Da Genova sono partiti con questa etichetta e così sono stati trattati a Mauthausen. Considerarli prigionieri politici poteva essere la vendetta per una città in cui Resistenza operaia e partigiana e popolazione rappresentavano un fronte unico e compatto anche di fronte alle minacce del prefetto Basile e alle uccisioni dei primi partigiani. A Mauthausen successivamente prevalse, forse per necessità, l’opinione di considerarli “liberi” lavoratori, destinati sì al lavoro coatto ma, rispetto ad altri deportati, con un trattamento, almeno teoricamente, migliore.

GLI SCIOPERI: LA PRIMA FORMA DI RESISTENZA ITALIANA

1942/ giugno 1944: nel corso del ‘42 in molti italiani l’entusiasmo per il regime si è raffreddato. Tra i lavoratori delle fabbriche, piccoli gruppi di antifascisti di antica data- specialmente comunisti e socialisti- sono da sempre attivi nella clandestinità e, con molta accortezza, evitando i pericoli continui delle spie, riescono a proseguire la raccolta dei fondi del Soccorso Rosso ed a creare una rete di collegamenti, più o meno stretta, tra i compagni delle fabbriche e non solo di quelle genovesi e liguri.

 I volantini e i giornali antifascisti che lasciano per la strada, nei gabinetti e negli spogliatoi delle fabbriche, già da prima della guerra, hanno ora una quasi sistematica comparsa, specie l’UNITA’ e l’Avanti e le notizie - come quelle trasmesse dalle stazioni radio estere e vietatissime da ascoltare - contrastano con quelle della stampa di regime: la Vittoria nazifascista proprio non si intravede.

 Sono invece sotto gli occhi di tutti i risultati delle infelici campagne di guerra. Quella di Russia soprattutto ha disseminato l’Italia di lutti, migliaia i morti e i dispersi, senza contare gli invalidi.  I nostri militari sono stati attori e testimoni di una tragedia che ha visto in azione anche la crudeltà degli alleati tedeschi (Non che su altri fronti di guerra, “italiani brava gente” sia un appellativo sempre meritato).

In città e nelle fabbriche compaiono scritte murali contro il regime e molte incitano allo sciopero: i salari e gli stipendi dei lavoratori sono troppo bassi, le razioni di guerra troppo scarse e distribuite senza regolarità. In Liguria la terra coltivabile è poca, mancano quindi risorse proprie e gli approvvigionamenti sono spesso sospesi anche per i bombardamenti che colpiscono strade e ferrovie e ciò che si guadagna, a parte ogni considerazione morale e legale, non consente di ricorrere al mercato nero se non in casi di eccezionale bisogno e con enormi sacrifici: è fame e come suol dirsi della più nera.

Le disgraziate sorti della guerra, i bombardamenti e le altre gravi ripercussioni sui civili, alimentano una sfiducia sempre più diffusa nella dittatura e suscitano un sentimento che se per molti, è ancora solo di disillusa protesta è tuttavia sufficientemente sentito per dar voce alle contestazioni e per aderire agli scioperi “anche degli strati meno politicizzati”[4]

 I comitati clandestini delle fabbriche sono attivi, sanno di avere con sé i lavoratori e le loro famiglie, le donne, lavoratrici e casalinghe, non temono di protestare pubblicamente per chiedere l‘aumento dei salari e delle razioni alimentari.  

Nel marzo del 1943 un grande sciopero comincia da Torino e si estende a Milano a Genova e negli altri centri industriali del paese. A Genova, per la disorganizzazione interna dei comitati, lo sciopero non ha successo[5], tocca solo qualche reparto di alcune fabbriche come la Manifattura Tabacchi di Sestri P., con netta prevalenza di mano d’opera femminile, dove scioperano le addette al reparto sigari.[6]

L’inizio non sembra promettente, ma il 1943 è l’anno in cui, con gli avvenimenti che di lì a breve avranno luogo, il riscatto dal nazifascismo e l’opposizione alla guerra per un futuro da ricostruire, diventano, a Genova e nella parte di paese occupata, obiettivo politico primario per un numero sempre maggiore di italiani non compromessi.

 E’anche l’anno della deportazione, nei campi di sterminio tedeschi, di 238 ebrei genovesi. Alla fine della guerra ne torneranno 10, e solo allora si conoscerà anche questa enorme nefandezza del regime dittatoriale.

Il 25 luglio è stato solo un abbaglio di libertà dal fascismo, Mussolini è caduto, ma il fascismo resta, tuttavia almeno, con il nuovo governo Badoglio, si sono aperte le carceri ai dissidenti politici, altri sono tornati dal confino che, per molti, è stato anche scuola di cultura politico-economica, altri ancora, sfuggiti ai tribunali fascisti e rifugiatisi all’estero, tornano dall’esilio forzato. I partiti, non senza contrasti, si riorganizzano.

Trascorrono 45 giorni e l’8 settembre la dichiarazione della firma dell’armistizio con gli anglo-americani è comunicata prima da Eisenhower, poi da Badoglio. In Italia è il caos: non è la fine della guerra e subito lo capiscono i nostri militari,

costretti, senza alcuna direttiva chiara e certa, a scegliere tra fedeltà al patto nazifascista e riscatto al fianco dei nuovi alleati anglo-americani. Cefalonia, con i 9mila soldati ed ufficiali trucidati per non aver ceduto le armi ai tedeschi è l’emblema della volontà e del coraggio disperato dei militari italiani.

L’armistizio non coglie di sorpresa i tedeschi. Da tempo hanno aumentato il numero delle divisioni della Wehrmacht in Italia e mentre al sud queste rallentano di molto la risalita delle truppe anglo-americane, impegnandole in terribili battaglie, al nord, il 23 settembre nasce la Repubblica Sociale Italiana ( RSI ) di Mussolini, fortemente voluta da Hitler.  Oltre 800 mila soldati sono catturati dai tedeschi 600 mila rifiutano di aggregarsi alle truppe tedesche e sono deportati: saranno gli “Internati militari Italiani” (IMI), inquadramento che impedisce di considerarli prigionieri di guerra e di avere pertanto la protezione della Croce Rossa. In un secondo tempo saranno considerarti alla stregua di lavoratori civili.

 Napoli insorge contro i nazifascisti e in 4 giorni, dal 27 al 30 settembre, li scaccia dalla città prima dell’arrivo degli alleati. E’ la prima forma di Resistenza popolare al fascismo, cui partecipano attivamente i militari che dopo l’8 settembre non hanno risposto alla chiamata della RSI e sono riusciti a sfuggire alla cattura dei tedeschi ed i civili. IL 13 ottobre Vittorio Emanuele III dichiara guerra alla Germania, diventiamo cobelligeranti degli anglo-americani.

L’ORGANIZZAZIONE POLITICA NELLE FABBRICHE

Già pochi giorni dopo l’8 settembre, i tedeschi spadroneggiano nelle nostre città e nelle fabbriche dalle quali, come alla Siac di Genova, “con autocarri tedeschi caricano i prodotti finiti, partendo poi per destinazione ignota”.[7]. 

Gli oppositori politici già liberati tornano a rifugiarsi nella clandestinità, ma la politica, quella d’opposizione al fascio naturalmente, continua la sua azione ha compenetrato e mutato l’organizzazione interna delle fabbriche e la vita delle città occupate. .  Il PCI clandestino sul finire di settembre istituisce i Gruppi di azione patriottica, piccolo numero di persone coraggiose, non necessariamente comuniste, pronte ad ogni azione di disturbo, alla provocazione ed anche agli attentati al nemico.    Alle Commissioni Interne pervase da spirito fascista, si sostituiscano i Comitati clandestini antifascisti che hanno il compito di affiancare i lavoratori nella difesa dei propri diritti, nell’organizzazione interna delle lotte e nella diffusione della stampa. Quasi contemporaneamente nascono i Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) periferici, che agiscono sul territorio e nelle fabbriche soprattutto per coordinare le varie figure professionali con il compito di proteggere e nascondere i macchinari più importanti per la continuità del lavoro a fine guerra.

Dal marzo, non sono stati presi adeguati provvedimenti per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Ora è freddo e non c’è combustibile, continuano a scarseggiare i generi alimentari e anche le medicine mancano.

Alla chiamata alla leva della RSI del ’43 i giovani si presentano in discreto numero salvo poi disertare. Per renitenti e disertori, la pena è la fucilazione secondo il bando del repubblichino Graziani.

Volontari antifascisti appartenenti ai partiti già messi al bando ed ora ricostituiti nella clandestinità, renitenti alla leva, militari italiani disertori, russi, slavi, inglesi, fuggiti dai campi di prigionia tedeschi ed anche disertori tedeschi, vanno a costituire le prime formazioni partigiane poco equipaggiate, soprattutto poco armate, è l’opposizione alla dittatura, all’occupazione, alla guerra.  Ad aprile e a maggio del 1944, i primi Martiri, della Benedicta 6 aprile e del Turchino 15 maggio.

A GENOVA

Si sciopera il 19 ed il 24 novembre, da Voltri, estremo Ponente della città a Cornigliano, si fermano due tra le fabbriche maggiori S.Giorgio, Siac ed altre più piccole di altri quartieri.

Gli industriali ed il prefetto Basile concordano nel concedere un aumento salariale, diversificato per categoria di lavoratori, sesso ed età.

L’agitazione non è sedata.  Il 27, scioperano i tranvieri, lo sciopero è politico contro l’arresto di 3 operai che diffondevano volantini. Azioni concordate di sabotaggio, fanno saltare gli scambi in varie zone della città che è paralizzata, circolano solo 70 vetture sotto scorta.

A dicembre, il 16,[8] preceduto da proteste isolate all’Ansaldo, per la riduzione dell’olio e dei grassi nella tessera annonaria, inizia uno sciopero che diventa generale, si protrae fino al 19 e per alcuni settori fino al 21. 

Il 17è ucciso un giovane operaio della S.Giorgio, Alfredo Ferrogiaro, per un’azione di sabotaggio.

Il 18 sono fucilati due giovani Armando Maffei e Renato Livraghi, due operai trovati armati. La città reagisce. Nei quartieri dove abitano le vittime, gli esercizi pubblici chiudono, le strade si svuotano. Agli scioperanti delle fabbriche si aggiungono altre categorie di lavoratori: ospedalieri, panettieri, spazzini, tutti uniti in una grande protesta politica.[9]

Qualche miglioramento della situazione economica: il generale Zimmermann delle SS, incaricato politico delle forze armate tedesche, promette il controllo sui prezzi delle merci il cui aumento vanificherebbe gli aumenti salariali concessi.

15 gennaio 1944, tutte le fabbriche scendono in sciopero. Le prime agitazioni iniziano il 13 al Fossati spontaneamente, prima che l’organizzazione sindacale possa entrare in attività con una direzione delle azioni.   Lo sciopero è compatto anche nonostante il bando di Basile che oltre a limitare la libertà dei civili, aumentando ad es. le ore di coprifuoco, stabilisce la chiusura delle fabbriche in sciopero.

Il 14, Basile, aveva fatto fucilare al forte di S. Martino, 8 prigionieri politici per vendicare l’uccisione di una spia fascista per mano del gappista Giacomo Buranello.E’ il modo del prefetto per dimostrare ai camerati, servilismo e ferocia.

Lo sciopero, per decisione del Comitato di agitazione, si conclude il 20 gennaio: è il primo, straordinario esempio di tenace opposizione della classe lavoratrice al nazifascismo, un danno enorme alla produzione bellica, una vittoria morale dei lavoratori, ma una sconfitta sostanziale poiché nessuna delle loro richieste è accolta, la fame è fame e si fa sentire, così come il freddo. I lavoratori sono delusi. Dopo poche settimane inoltre il 29 febbraio, è pubblicato il minaccioso bando di Basile.

1° marzo, primo sciopero generale del nord Italia che si conclude l’8, è preparato e sostenuto soprattutto dal PCI.

Sono coinvolte Milano e Torino con pieno successo, solo a Genova lo sciopero fallisce. Alla S.Giorgio e all’Ansaldo Meccanico è stroncato sul nascere dagli uomini della Pubblica Sicurezza, mentre alla Siac si ferma un solo reparto. I motivi del fallimento sono vari. La delusione per i mancati risultati dello sciopero di gennaio è ancora troppo recente per alimentare speranze di riuscita con una nuova astensione dal lavoro; si diffonde la notizia dell’uccisione di Giacomo Buranello, avvenuta dopo terribili torture, il 3 marzo, due giorni dopo la proclamazione dello sciopero, ciò scuote profondamente il morale dei lavoratori e contribuisce a frenarne l’azione. I genovesi sono di scorza dura, l’hanno dimostrato e lo dimostreranno, ma insistere ad impegnarli in un’azione della quale non sono pienamente convinti sarebbe un inutile tentativo oltre che un danno enorme per l’unità ormai raggiunta fra i lavoratori. Certo, anche le minacce del bando di Basile hanno il loro peso, relativo però se a distanza di poco tempo, il 1° maggio le bandiere rosse sventolano sull’Ansaldo e sulla Siac, ben visibili da lontano e in molte fabbriche alla sirena delle 10, che suona come prova dell’allarme antiaereo, i lavoratori incrociano le braccia e stanno in silenzio per vari minuti.

Ormai non c’è volantino, scritta murale, giornale clandestino che non chieda la fine della guerra, le proteste dei lavoratori delle fabbriche non si limitano a chiedere miglioramenti economici, chiedono la fine della guerra, la pace.

1giugno, alle 10, al suono della sirena dell’antiaerea, inizia lo sciopero. Si fermano S.Giorgio, Piaggio, Ansaldo, Siac e inoltre Fossati, Ceramiche Vaccari e Ferriere. La Pubblica Sicurezza e i tedeschi intervengono a presidiare le fabbriche.

Il 10 giugno Basile ordina la chiusura delle fabbriche. Il 14 il lavoro riprende, 2 giorni dopo, il 16 giugno 1944 la razzia nazifascista nelle fabbriche.

Naturalmente questo tragico atto non ferma la Resistenza operaia, gli scioperi e i sabotaggi.  A Genova soprattutto è una continua caccia all’uomo pertanto, il Partito Comunista Italiano titola uno dei suoi articoli de LA NOSTRA LOTTA del 10 luglio del 1944,[10] che ha un corposo elenco di suggerimenti per la migliore organizzazione logistica e politica:

Direttive per la lotta contro le deportazioni

Né un uomo né una macchina per la Germania.

                             



[1]SCRITTURE RECLUSE da QUADERNI DI STORIA E MEMORIA 2013, pag. 97

[2] O.Bianconi:16 giugno 1944. La tragedia della deportazione a Mauthausen vissuta attraverso i diari originali di un operaio genovese, a cura di S.Bianconi,Chinascki Edizioni,Genova 2009

[3] SCRITTURE RECLUSE da QUADERNI DI STORIA E MEMORIA 2013 pa.9

  [4]Arturo Colombi: I reprint del Calendario 4 SEDIT 1970

 [5] Manlio Fantini: Due treni di storia. Istituto Storico della Resistenza in Liguria.1981

[6]Umberto Massola: GLI SCIOPERI DEL ’43. EDITORI RIUNITI:1973

[7] Manlio Fantini: Due treni di storia. Istituto Storico della Resistenza in Liguria,1981

[8] Antonio Gibelli: LE LOTTE OPERAIE IN LIGURIA NELL’INVERNO1943-1944, NOTIZIARIO DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LIGURIA, Numero speciale, marzo1974

[9] Roberto Battaglia: Storia della Resistenza Italiana. Einaudi, Torino,1964

[10] Da : I reprint del Calendario4, SEDIT1970